Yellow Moor: il nuovo progetto di Andrea Viti e Silvia Alfei
Non si può certo parlare di vero e proprio esordio, perché i due artisti in questione hanno alle spalle un curriculum di tutto rispetto: oltre alle
numerose collaborazioni, Andrea è stato dal 1997 al 2005 bassista degli Afterhours e Silvia, laureata in Belle Arti all’Accademia di Brera, dal 2001 si dedica al song-writing.
Yellow Moor è il nome scelto per il progetto nato nel 2009, che solo oggi viene concretizzato agli occhi del pubblico con la prossima pubblicazione (la data prevista è il 21 marzo) del loro primo disco, dal nome omonimo a quello del duo.
Il lavoro sarà distribuito dalla Prismopaco records e promette di far parlare di sé. Da un primo ascolto delle tracce emerge un sound ricercato, che non si nasconde dietro troppi fronzoli, ma cerca di essere il più diretto possibile.
Curiosa è la genesi di questo disco: i due artisti, colti da subitanea ispirazione (dicono.. io non c’ero), decidono di mettersi alla prova e tentare di comporre qualcosa di ampio respiro. Il luogo dove vivono, Milano, non permette di raggiungere quella pace dei sensi necessaria allo sviluppo artistico ed è a questo punto che i due fanno una scelta radicale e si trasferiscono fuori città, in campagna anzi, per essere precisi, in un bosco e vicino a un fiume. Qui trovano una dimensione ideale e bucolica e iniziano a lavorare a lungo per proporci adesso il frutto delle loro fatiche.
È importante fare questa premessa perché solo in questo modo le dieci canzoni del disco possono essere pienamente apprezzate e, perché no, capite. Le composizioni trasudano aria di campagna, canti di grilli e di cicale.. non sto scherzando, e io che in campagna ci sono nato e intendo restarci posso assicurarvi che il paesaggio campestre ha avuto un ruolo fondamentale durante la composizione dei brani, che attingono tutti a quella atmosfera sospesa che si può trovare solo lontano dalla città e che non sempre tutti apprezzano per lo spaesamento iniziale che crea in soggetti poco avvezzi.
Yellow Moor è un prodotto genuino che non si distacca molto dai canoni classici del rock alternativo italiano, ma che ha comunque qualche cosa da dire.
In tutte le canzoni si ascolta l’intreccio delle voci di Andrea e Silvia e forse un paio di brani avrebbero potuto focalizzarsi su uno solo dei due per variare leggermente registro, ma non entriamo nel merito delle loro scelte artistiche, semplicemente cerco di dare un giudizio personale.
I brani girano e coinvolgono. Castle burned è l’interessante brano d’apertura; segue They have come, che ad un’atmosfera quasi in stile western accosta poi un assolo di Hendrixiana memoria (passatemi il neologismo). La terza traccia, Covering thing, si apre con una batteria alla My Sharonae prosegue come uno dei pezzi migliori dell’album, aprendosi poi in un ritornello piuttosto straniante, che viene apprezzato pienamente al secondo ascolto. Anche qui, notevole il tocco dell’assolo di chitarra.
Inside a kiss offre una soffusa atmosfera psichedelica, accompagnata da un cantato dolce, quasi sussurrato. Across this night è l’immancabile ballata acustica dai toni più intimistici e riflessivi. È in questo brano che la voce di Silvia prende per la prima volta il sopravvento e viene finalmente apprezzata.
Seven lizards è, a mio avviso, il brano più interessante dell’album: dopo un’apertura dai toni allucinati, la canzone sembra trascinarci per mano attraverso un bosco umido, nel tardo pomeriggio di una giornata assolata di novembre. È con questo pezzo che capiamo bene quale sia stato l’apporto dell’ambiente naturale incontaminato alla creazione delle canzoni; il brano in questione è nato dal silenzio, che cozza con un finale inaspettato, splendidamente lisergico.
Passa più in sordina Ghost, brano elettro-acustico, con un riff di chitarra che fa pensare ad una messa nera celebrata, tanto per cambiare, dentro a un bosco. È poi la volta di Superstar, con un inizio potente e un basso saturo che mi piace moltissimo; i fraseggi di chitarra schizofrenici tengono alta l’attenzione dell’ascoltatore e la sessione ritmica serrata non lascia scampo. È un brano che ti mette con le spalle al muro. Notevole.
Out of the city è la seconda ballata del disco e Yellow flowers, ultimo brano, chiude il lavoro con un’atmosfera onirica, dove la chitarra sembra quasi un respiro.
In conclusione, posso dire che Yellow Moor è un disco ben fatto, che vale sicuramente la pena ascoltare. Peccato soltanto per la scelta della lingua inglese per i testi: secondo me i brani avrebbero avuto una ancor maggiore incisività se fossero stati cantati in italiano, ma queste, lo ripeto, sono scelte artistiche che non mi permetto di giudicare.
Aspettiamo il 21 marzo per capire quale sarà l’accoglienza del pubblico.
Gianluca Zanella