TUTTO SBAGLIATO è il titolo dell'album di EMANUELE BELLONI. L'intervista su MIE
Tutto Sbagliato è il titolo dell’album di Emanuele Belloni, uscito il 23 novembre 2018 per Squilibri Editore.
L’album rivolge un’attenzione particolare al mondo della detenzione e delle storie che in questo microcosmo si raccontano. Un viaggio in musica e un viaggio che la musica ha guidato dentro il carcere romano di Rebibbia e che ha visto la collaborazione di un gruppo di detenuti nella scrittura di uno dei brani del disco, “Solo cose più buone”.
E’ proprio questa l’anima del lavoro: pensare al carcere come quell’ambiente dove il corridoio percorso dal portantino è un viaggio verso il percorso rieducativo che ciascun carcere deve garantire ai suoi detenuti. La detenzione non è la colpa, neppure la pena ma una fase di riflessione che ciascun carcerato affronta come un romantico eroe. La libertà è la presa di coscienza che passa attraverso ciascuno: per il detenuto è commisurata all’entità della colpa e per la società acquisisce il senso di responsabilità che la definisce società civile.
Emanuele Belloni – Solo cose più buone (Videoclip)
‘Tutto sbagliato’ è il tuo ultimo lavoro, pubblicato da Squilibri editore. Che cosa è tutto sbagliato?
É la naturale essenza dell’essere umano. L’uomo vive, nasce, cresce evolve e sbaglia. Ovviamente è il paradosso che ci apre la porta del racconto, quello che ci fa partire da zero e ricostruire, man mano, fino all’uscita del tunnel: quello che ci fa scoprire gli aspetti più nascosti e privati di un racconto umano fatto di debolezze, debolezze alle quali impariamo ad avvicinarci con attenzione ed ascolto.
La musica di questo disco ha visto la produzione artistica del compositore e organettista Riccardo Tesi. Come è nata la collaborazione con lui?
Una cara amica (Elisabetta Malantrucco), durante una cena, quando ancora il disco era un piccolo embrione scalpitante, mi propose Riccardo come referente per la mia produzione. L’organetto era quella matrice popolare che mi piaceva dare al disco per portarlo dentro un mondo fatto di suoni graffianti e schietti: i suoni dei legni, delle ance (e qui il bravissimo Gabriele Mirabassi ci ha messo anche le sue), delle corde acustiche (dove le mie hanno trovato l’incontro magico di Custodio Castelo e Maurizio Geri), delle pelli (quelle dei piedi di Gigi Biolcati suonate sui più disparati strumenti).
Un lavoro che parla del carcere, e che è stato anche – almeno in parte – registrato in carcere. Ci racconti la tua esperienza?
Un’associazione (Chi Come Noi) che supporta progetti di osmosi dentro-fuori con i detenuti del carcere di Rebibbia. Una serie di incontri di quasi un anno, concerti fatti insieme dentro e canzoni scritte a 4 mani tra dentro e fuori durante questi incontri.
Così insieme all’arrangiatore Andrea Terrinoni, abbiamo coinvolto un cantante autore, Mauro Armuzzi – aka Marado’ – che ha scritto una parte RAP del brano “Solo Cose Più Buone”, Carlo Bna che ha suonato le percussioni e Mauro Micucci la Tromba. Abbiamo trascorso un paio d’ore in una sala di Musica che era presente nel carcere di Rebibbia cercando di trasformarla in una piccola sala di registrazione, ma agli ascolti attenti si possono percepire i rumori di fondo e delle porte d’acciaio, i blindi, che si aprono e si chiudono.
In ’10 e 25’ è evidente il riferimento alla strage di Bologna. Quale aspetto hai voluto raccontare?
Il momento surreale del tempo. Quello stesso tempo che con il suo orario ha lasciato una traccia immortale, ora diventa il tarlo per il “fine pena mai”. La vita, come le rose, appassisce senza l’acqua, senza la libertà, e senza la prospettiva di una vita migliore. Questo, come altri momenti raccontati nel disco, vogliono essere dei dialoghi con la propria coscienza dove poter cercare, in anticipo, le risposte a domande che un domani potrebbero diventare tragiche e magari scegliere una strada diversa, perché l’alternativa esiste sempre: va solo cercata.
Nel disco, c’è anche un brano il cui testo non è stato scritto da te, ma riprendi i versi che Nazim Hikmet scrive alla moglie dal carcere di Munnever. Una dolcezza sconfinata e profonda, un ottimismo difficile, per qualcuno che è in carcere…
E’ il brano centrale del disco. Quella ricerca di guardare oltre, di lanciare un ponte tra il dentro e il fuori fatto di puro ottimismo dove navigare il più bello dei mari, un mare da cercare, appunto, da trovare e da vivere insieme.
Un’altra storia che racconti è quella della fuga dei fratelli Anglin che nel 1962 violarono il carcere più impervio d’America, Alcatraz. La fuga come metafora di riscatto?
La fuga, inutile dirlo, è l’anima romantica di qualunque storia. E’ il momento in cui si fa il tifo per la corsa, per il superamento delle barriere, per la difficoltà del percorso e per il raggiungimento dell’obiettivo. E’ un momento dove si perdono i pregiudizi della colpa e della pena e dove si pensa soltanto all’uomo che corre via e che cerca di scappare. E il lieto fine può non essere scontato, come la storia dei fratelli Anglin della quale non si seppe mai se fortunata o naufragata tra le fredde acque della baia. In qualche modo la fuga si completa nel superamento delle barriere, degli ostacoli e non nel suo lieto fine.
‘Dolce, dolce, dolce’, è il brano che chiude il disco ed è dedicato a tua figlia. Quindi, alla fine, non è vero che poi tutto è sbagliato?
E rivedran le stelle. Era il brano che il disco chiedeva: l’uscita dalle celle, dagli odori, dalle facce non sempre accomodanti, dai luridi ranci passati dal secondino, dalle urla disperate dei migranti accatastati da un uomo con un dente di corallo.
Dopo tutto questo rumore, lo spazio, come di fronte ad una spiaggia al tramonto, diventa eterno e la corsa dell’uomo e della sua crescita è la speranza di un futuro migliore che parta dalle profonde coscienze di ognuno di noi con il compito di lasciare nei nostri figli lo stesso compito in eterno.