MARCO DE ANNUNTIIS: il suo "JUKEBOX ALL'IDROSCALO". L'intervista su MIE
Parliamo di beat generation dei tempi moderni, parliamo di MARCO DE ANNUNTIIS e della sua r-moscia da nobile decaduto
La redazione di MIE
Si intitola “JUKEBOX ALL’IDROSCALO” questo nuovo disco pubblicato dalla INTERBEAT in CD e digitale e da CINEDELIC per la versione VINILE.
Irriverente e anche decisamente strafottente con un linguaggio pop così come le sue strutture che a tratti corre il pericolo di essere deriso. Per il resto abbiamo a che fare con una personalità dai contorni forti e decisi che non ci sta a contenersi ne a scendere in compromessi esistenziali di compartimenti stagni.
“JUKEBOX ALL’IDROSCALO” smonta certezze e cliché paradossalmente sposandoli e appoggiandovisi per de-strutturare il comun pensare troppo omologato e schiavo di una certa pratica di mitizzazione. A noi piace quando la vita si fa diretta e senza peli sulla lingua.
Marco De Annuntiis: lo conosciamo oggi in pompa magna con questo disco. Possiamo dire che è la prima vera grande pubblicazione? Stando didatticamente ligi al significato di questa parola?
È il primo full-album che esce a mio nome sia in digitale che in vinile, quindi sì, tecnicamente è un esordio. Nel “Decameron” Pasolini diceva “In fondo che bisogno c’è di creare capolavori quando è così bello immaginarli e basta?” Quella frase è stata la rovina di molti di noi! Avrei potuto fare molto di più e molto prima, ma sono sempre stato un tipo rinunciatario, pure un po’ snob, con poco senso pratico.
Non sei di certo un emergente e di carriera ne hai alle spalle. Va da se che c’è da chiederti: cosa pensi dell’espressione “artistica” guardandoti attorno?
Guardandomi intorno preferisco concentrarmi sulle gambe delle donne piuttosto che sulle canzoni che scrivono gli altri. Tutti, dal produttore al vicino di casa, mi portano continuamente come esempio delle novità a quanto pare famosissime che io ignoro completamente. Se invece vado a sentire musica dal vivo, di qualunque genere, allora sì sono molto attento e cerco sempre di imparare qualcosa dagli altri, al limite anche solo cosa NON va fatto.
Oggi sembrano contare più i numeri delle visualizzazioni che le parole di una canzone. Che fondo stiamo raggiungendo e secondo te a chi dobbiamo imputare le colpe?
Le visualizzazioni non dicono nulla: a parte che possono essere comprate, essendo gratuite possono essere anche accidentali o perfino denigratorie (“guardate un po’ cosa ha fatto ‘sto scemo”). La situazione è pessima, ma la colpa è anche nostra: gli addetti ai lavori si cagano sotto di fronte a troppe cose. Se ci arrendiamo all’idea che una canzone non debba durare più di due minuti, che debba catturare l’attenzione entro i primi due secondi perché altrimenti uno passa oltre… a questo punto facciamo direttamente canzoni che durino due secondi, così uno non fa nemmeno in tempo a cambiare e deve sentirla per forza!
Pasolini – e non lo cito a caso ovviamente – diceva che la vera rivoluzione possiamo farla spegnendo le televisioni… e immagino che tu sarai d’accordo…
Eppure la televisione degli anni ’60 oggi viene rimpianta. Il miracolo dei televisori spenti in massa lo avrebbe realizzato poi Celentano negli anni ’80, ma durò 5 minuti: io ero piccolissimo, ma mi ricordo il clamore. Oggi però chi è che avrebbe il potere di far spegnere computer e telefoni anche solo per 5 minuti, di guidare un logout di massa? E chi avrebbe il coraggio di cominciare per primo, rischiando di non essere seguito dagli altri? Siamo in pieno basso impero, seguiranno secoli di medioevo prima che nuove “rivoluzioni” siano possibili.
Dal vivo come suona il tuo “Jukebox all’Idroscalo”?
Esattamente come su disco: per suonare l’organo ho rinunciato a suonare io la chitarra, proprio perché volevo fare tutto più dal vivo possibile, senza nulla che non fosse riproducibile. Il palco poi è sempre un’altra dimensione: ci sono cantautori tecnicamente molto più bravi di me ma molto freddi, quasi burocratici. Il pubblico ha bisogno di essere emozionato, provocato, se necessario perfino insultato: meglio assistere a uno spettacolo che ti mette a disagio (e che almeno per questo lo ricorderai) piuttosto che a uno che ti annoia.